04-05-2017 Vilma Gabri – Paola Parodi
riceviamo dalla prof.ssa Lucia Chiara Piovano:
La scrittura di Vilma Gabri è quella della lettrice esperta che esercita il labor limae attraverso l’aggettivazione puntuale, l’apparente trascuratezza negli asindeti, il ritmo fonico del tessuto lessicale, così da costruire con ricercatezza il susseguirsi delle immagini, siano esse quelle marine di pesci e gamberetti nel primo testo, o quella del bue al lavoro che ritorna in racconti lontani a identificare lo stesso personaggio/persona. Mare e terra: il mare è pensato e vagheggiato, poco al di là delle colline, così come già in Pavese, ma ancora oggi in Paolo Conte o Gianni Farinetti. Ancora a Pavese, ma anche a Fenoglio, a Nuto Revelli, sembra portare una terra fatta solo di polvere e sudore, sangue e scorza dura, carne e sputi, mai consolatoria, mai promessa primaverile della vegetazione che nasce, ma solo ossessione dell’estate che affatica, operosità dell’autunno che avanza, dura madre che chiede dedizione e non dà risposte. Un barlume di salvezza sta nel rito, suggellato dal canto che sgorga acuto dalle gole delle donne a compensare il grido strozzato durante gli amplessi subiti. Rito, mito, archetipo: quelle stesse immagini nate a qualche decina di chilometri da qui, pochi anni fa, potrebbero venire dalla Sicilia di Verga o da un film neorealista, immagini di una natura umana quasi immutabile nel tempo e nello spazio cui la scrittura trova, alla fine, un compimento e un senso oltre la sofferenza.
A un sud più lontano ancora di quello di Pessoa, forse alla letteratura dell’altro emisfero, sembra invece rimandare l’atmosfera abbacinata dell’unico racconto di ambientazione cittadina, in cui l’acqua salata non è quella del mare sognato, ma quella delle lacrime desiderate, e proibite, nelle vie immobili come un destino deciso da un’assenza feroce. Se là, tra le colline, la vita poteva alla fine dissolversi leggera come la polvere colorata di un mandala, qui è spossata dal giorno interminabile, si consuma e si inaridisce fino a sbriciolarsi come foglia riarsa. Sembra non esserci mito salvifico nell’oggi che ancora viviamo, qui, abbagliati e sospesi tra gli interrogativi metafisici che si nascondono dietro gli spigoli delle nostre strade, dove ci ostiniamo a cercare una presenza che ci conforti. Anche la scrittura non può che avvolgerci nella desolazione.
Ma, forse, la città estiva è solo una delle tante città invisibili che si nascondono sotto i nostri piedi, come la cabina volante è una qualche ammodernata parente della mongolfiera che si porta via Cosimo Piovasco di Rondò (in fondo anche nel loro autore c’erano Cuba, il mare della Liguria e la città in cui viviamo).