22-08-2017 Rosanna Caraci
Nelle scuole di Collegno Bianca parla agli studenti di medie e superiori di disturbi alimentari.
Nelle scuole di Collegno Bianca parla agli studenti di medie e superiori di disturbi alimentari.
pubblichiamo la recensione di Giorgio Rava, pubblicata su “Il Torinese” del 19-07-2017
Hanno un odore del tutto particolare. Ritorno all’infanzia e ricordo che ne raccoglievamo a maggio delle intere scatole di latta…
Marco e i maggiolini (melolontha melolontha)
Conosco Marco Travaglini da una vita e ne apprezzo la scrittura. Marco è nato a Baveno, sulla sponda occidentale del lago Maggiore. Forse ciò che più è conosciuto di questo borgo lacustre è il granito rosa, non sicuramente le ormai esauste fonti che avevano sollevato dalla gotta e dalla renella generazioni di illustri che, nel secolo passato, come era il detto, “passavano le acque”. Ancora oggi un triste leone, alle porte di quelle che erano le rinomatissime “Fonti di Baveno”, guarda con occhio spento l’andirivieni di turisti dalla calzettina bianca e dal sandalo sdrucito. Ma non è certo questo il luogo dove ricercare le origini di Marco Travaglini. Lui sta dentro le cave del rosa , tra gli scalpellini, nella polvere da silicosi, tra gli scoppi della mina. Ha in sé l’igneo granito rosa di Baveno che entra profondamente nei suoi scritti. Mette in fila parole che sembrano fatte degli stessi componenti di quel granito di Baveno che ha dato forme all’Operà di Parigi, alla chiesa di San Carlo a Vienna, al monumento a Cristoforo Colombo a New York, così come ai muretti a secco che portano ai circoli operai o ai piccoli cimiteri delle frazioni bavenesi , o al gioco del “filetto” degli scalpellini. In quel granito troviamo il feldspato, che “colora” di rosa il cielo dei tramonti sulle isole Borromee, il quarzo – gelido come il fiato di un inverno al Mottarone – e poi epidoto, zircone, olivina: pietre usate in gemmologia, soprattutto lo zircone che per la sua durezza è considerato il diamante “povero”. In quel granito c’è un pot- pourri di elementi come lo sono i racconti contenuti nel suo bel libro intitolato “Il tempo dei maggiolini”. I maggiolini hanno un odore del tutto particolare. Ritorno all’infanzia e ricordo che ne raccoglievamo a maggio delle intere scatole di latta, scrollando gli alberi. Si diceva, ed era una delle prime favole metropolitane, che la “forestale” pagasse per ogni scatola consegnata. Una balla colossale che ci ha fatto sperare in guadagni astronomici, ma poi le scatole finivano sui falò con un crepitio ed un profumo di gamberetti alla griglia (l’elitra di questi insetti coleotteri è composta da chitina, la stessa del carapace dei gamberi). Per noi che manco sapevamo cosa fossero i gamberetti alla griglia (negli anni ‘60 e nelle famiglie che abitavano le case popolari non entravano gamberetti..) quel profumo è ritornato in seguito, in occasione di qualche grigliata tra amici. Come tutto, come sempre, prima o poi, ritorna. Il “melolontha melolontha”, secondo la classificazione linneana, è un coleottero (ho anche un diploma di perito agrario..) e lo avevo studiato illo tempore sul testo di entomologia agraria come animalaccio dannosissimo alle colture.
Ora l’ho ritrovato nel libro di Marco Travaglini che riporta in copertina l’albero dei maggiolini, regalandoci spaccati di vite fiorite o trascinate sui contrafforti o sulle rive di questa terra di laghi e di montagne dove entrambi siamo nati. Sedici storie raccolte in centodieci pagine da bere tutte d’un fiato, come si potrebbe sorseggiare un calice di buon bianco fresco nella calura di quest’anomala estate. Leggendo mi sono ritrovato in quella “comédie humaine” a me particolarmente cara, in quella “dimensione” del “buon tempo che fu” che mi ha ricondotto alla “luciferina”, da lux fero, portatrice di luce, come la stella del mattino, che si trova in quelle lucciole che mettevo sotto al bicchiere nella mia stanza e che, spenta la luce dell’abat–jour, mi accompagnavano nei miei sogni di bambino. Queste storie mi riportano alle erbe di prato raccolte sotto la guida di mia madre – Marco, nel raccontare, ha però dimenticato le verzole (selenia) e i “lavartiis”( il luppolo) – o a quegli insetti neri e gialli ribatezzati “prividitt”, i “preti”. Ma già l’amara conclusione del primo racconto ci dice che quel “piccolo mondo antico” è sparito, sopravvive come “mito” dentro noi, come il profumo delle madeleines di proustiana memoria. Alcuni di questi racconti mi hanno colpito particolarmente. “Arrigo e i Trambusti” ha evocato in me suonatori d’altri tempi, spesso autodidatti, quelli che giravano le osterie con la fisarmonica in spalla. Ricordo, ad esempio, il “Ligio”. Era di Nonio – sulla sponda occidentale del lago d’Orta – e spesso lo incontravo a Omegna, al circolo della Madonna del Popolo o all’enoteca del “Ferro”, sempre alticcio : gli offrivo un bicchiere, bevevamo insieme e gli ho dedicato un quadro che lo ritrae con la sua fisa. E poi i “Bruno’s’”: onnipresenti alle feste de L’Unità, ma anche a quelle “di fede e devozione” con un repertorio che andava da “Bandiera Rossa” a compiacenti o casti valzerini. “Fuochi fatui” propone un’avventura cimiteriale, un noir nostrano e grottesco, con un protagonista burlone che provocava un bel po’ di “strizza”. Mi ha rammentato una “leggenda metropolitana” dei miei tempi, leggenda che ci aveva impauriti e che ci aveva dato l’immagine del cimitero del romanticismo di Hoffmann e non certamente di quella dimensione di pace eterna o di luogo di passaggio ad altre dimensioni. Il “tipo” in questione per dimostrare di non aver paura dei morti aveva scommesso che si sarebbe recato nottetempo al cimitero e che avrebbe girato tra le tombe, ma impigliatasi la giacca in una di quelle basse inferiate che spesso erano poste intorno alle tombe, sentendosi “tirar per la marsina”, potete immaginare a cosa potesse aver pensato. Lo trovarono stecchito e ormai “freddo”, appeso alla sua marsina. Ne “Il mio Gianni”, Marco ci parla forse dell’omegnese più illustre e più conosciuto, proponendo una bella storia che richiama alla memoria anche i giocattoli di latta prodotti a Omegna negli anni venti. I ricordi sono molti. Gianni Rodari nasce nel 1920, come mio padre; muore nel 1980, come mio padre; era maestro di scuola,come mio padre. Anch’io ho giocato con la motonave di latta della Cardini: si chiamava “Saturnia”. “La pentola d’oro delle Quarne” è un bel racconto da cui emergono ancestrali odi che mi hanno riportato alle Novelle della Pescara di D’Annunzio, alle rivalità – finite poi nel sangue – tra gli abitanti di Miglianico, piccolo paese di terra d’Abruzzo, tra i sostenitori di San Gonselvo e quelli di San Pantaleone. Non è accaduto così tra i “quarnelli” di Sotto e di Sopra, ma residuati di queste rivalità sopravvivono. Nel racconto però interviene l’intelligenza dei bambini ed allora è un’altra storia. Didattica pura! Ne “L’ombrello di Sissi” s’incontra la storia degli ombrellai del Vergante, soprattutto quella dei bambini affidati ogni anno al “lusciàt”, all’ombrellaio che li portava in giro per l’Europa. Non avevano fortune, dormivano nei fienili, mangiavano quando capitava, sopportando ogni cosa. Se capitate a Gignese, visitate il museo dell’Ombrello e avrete un’immagine degli strumenti del “lusciàt” e delle vere e proprie opere d’arte che essi creavano. Non mi sono stupito quindi del bel racconto sull’ombrellino della principessa Sissi che, come ci dice la storia, fu fatta passare a miglior vita dall’ anarchico Luigi Luccheni. Triste fine anche la sua, “suicidato” in carcere nel 1910. La sua testa recisa fu conservata in un contenitore sotto formalina all’Hotel Mètropole, mostrata agli illustri ospiti come Lenin, Molotov Malenkov e poi regalata nel 1998, nel centenario del regicidio, dal governo svizzero all’istituto di patologia di Vienna. “Una spina nel cuore” e “Villa Morlini” ci rammentano che sia il lago d’Orta che il Maggiore sono stati anche set cinematografici come ci racconta Marco Travaglini in queste due saporite storie che mi hanno riportato al tempi in cui venne girato ad Omegna “La banca di Monate” o ai racconti di Piero Chiara ambientati dei “casini” o “bordelli” che dir si voglia. Infine,senza nulla voler togliere agli altri racconti, “Vincent che disegnava le stelle”. La sua lettura mi ha fortemente emozionato. E’ il racconto che più mi ha colpito , forse per la vicinanza ideale a Vincent, per le affinità elettive, perché amo le stelle e guardo il cielo, perché anch’io dipingo stelle. Buona lettura, allora. E’ un libro che non vi deluderà.
Giorgio Rava
Dal Blog Anaconda anoressica di Consolata Lanza, un libro che lascia il segno… un contributo di far sensibilità sensibilità
Riceviamo pubblichiamo con piacere le impressioni di Anna Cavallo:
Con piacere ho letto e, debbo confessare, riletto più volte le poesie della silloge “Una poesia dal cassetto 2”.
Sono rimasta particolarmente colpita dallo spirito sognatore e fantasioso di questi giovani che riescono ad evadere, creando nuove suggestioni al lettore, dalla cruda e lineare realtà tecnologica di cui sono pervasi.
C’è grande equilibrio tra l’incanto della loro poesia e il disincanto di quanto li circonda, e i temi che trattano sono attuali, vivi e viscerali, mai sdolcinati e patetici.
Questi giovani poeti padroneggiano con perizia le nuove tecniche linguistiche della poetica odierna e le loro composizioni disegnano i colori dell’anima e le sfumature dell’esistenza dando forma ad un insieme cromatico che talvolta li avvicina ai grandi del passato.
Senza voler far torto ad alcuno degli scrittori, mi soffermerò brevemente su alcuni testi.
“Generosa come una quercia” e “All’ombra di un carrubo” mi hanno particolarmente e favorevolmente colpita in quanto gli autori hanno saputo ben coniugare e amalgamare, con riflessioni filosofiche e antropiche, le caratteristiche dei due generi con la risolutezza e la temperanza del genere umano nell’affrontare la vita.
Questa capacità di dar voce alle cose inanimate, di dare un volto a un particolare stato d’animo l’ho poi toccato con mano nel testo “Cos’è un poeta?”, che esalta il concetto di creatività: la sensibilità e la fantasia danno le ali alla vita, rendendola piacevole, colorata e armonicamente musicale.
Su questo crine di un immaginifico a tutto tondo, sincero e pieno di pathos, è da collocare ancora l’originalità contenuta nella lettera “Dolce e premurosa amata”, di una studentessa di Odenzo. L’autrice scrive una lettera calandosi in un’epoca non sua, assumendo un ruolo non proprio, quello del nonno che dal fronte della Grande Guerra scrive alla sua amata, la nonna. L’autrice riesce con bravura e intelligenza a farci rivivere tempi passati, luoghi lontani dalla nostra esperienza, eterni e sinceri amori senza età.
Complimenti a questi giovani poeti.
Serena Bruzzesi, poetessa in erba premiata a Torino – su Cronache maceratesi –
A Serena Bruzzesi, studentessa del liceo scientifico “G. Galilei” di Macerata, è stata assegnata una delle undici menzioni speciali del concorso nazionale “Una poesia dal cassetto 2”, la cui cerimonia di premiazione si è tenuta nelle scorse settimane nel “Salone dell’Accademia Albertina” di Torino.
La realizzazione del progetto è stata curata dal professor Mario Dino, che ha dichiarato di essere sorpreso e felice del fatto che “questi ragazzi, pur immersi in una realtà estremamente tecnologica, abbiano affidato i propri sentimenti ed emozioni alla parola evocativa del linguaggio poetico il cui tratto dominante sia il canto dell’amore, di un amore da amare e che diventi, di questi tempi globalizzati e frastornanti, l’unica e ultima speranza di vita”. Tra gli oltre 160 partecipanti sono stati 24 i componimenti scelti per la creazione del libro “Una poesia dal cassetto 2”, pubblicato da Impremix Editore, tra cui “Il vuoto”, poesia della giovane studentessa maceratese.
riceviamo e pubblichiamo volentieri:
Impressioni sul romanzo Santa Ilde di Porta Palazzo
Ilde è un personaggio ai margini: dell’identità sessuale, della società, della città in cui vive; popola e rappresenta con la sua particolarità (sfregio o segno di elezione naturale?) la periferia dell’anima e dei sensi dividendo con altri soggetti ibridi e canaglieschi una vita marginale e risicata, fatta di avanzi. Teppisti, zingari, sfruttatori, prostitute, poveri diavoli si accompagnano, si combattono, si prendono e si lasciano nella dura guerra dei giorni per sopravvivere e sopraffarsi. L’autore si addentra a conoscere un mondo che, appena ci sfiora, ci fa rinserrare nel cappotto delle nostre buone abitudini, frequentazioni e discendenze. Ma mentre noi ci rassicuriamo di non farne parte, troviamo una valida ragione per incuriosirci e continuare a leggere. La scrittura è realistica, le morbosità descritte mettono a nudo la nostra morbosità di spiarle. Le esplorazioni del sottobosco sociale nelle sue superstizioni, credenze ed espedienti sono interessanti anche dal punto di vista linguistico. Il romanzo è attuale e attesta un’osservazione tutt’altro che superficiale della suburra torinese. La protagonista è tremula, esposta, incline a compiacere i persecutori e ad innamorarsi; dai suoi tarocchi si affaccia nella vita di altri disperati o presagisce e interpreta maldestramente eventi per sé. La sua calda umanità e la sua umiltà la rendono capace di sperare e di dare, salvandola ai nostri occhi; ci affezioniamo a Ilde perché la sua natura la fa appartenere alle creature sognanti e generose che dagli errori non imparano molto.
Valeria Amerano
riceviamo da un nostro affezionato lettore e volentieri pubblichiamo:
Questo libro è un romanzo, un romanzo dedicato a Luciano Domenico (nome di battaglia Undici, come i suoi anni), staffetta partigiana, ucciso dai repubblichini a undici anni. Presentato in questo modo potrebbe apparire che Giuseppe Giordano abbia scritto un memoriale di guerra, arricchendo una già ricca bibliografia sull’argomento eppure non è così, perché questo romanzo ha un pregio in più rispetto a tanti libri analoghi; è una grande opera di narrativa, che prende spunto dal fatto reale della guerra – vissuta a Torino nel 1944 fino ad arrivare al 1945 – ma la rivisita e la trasforma in un succedersi di avventure dove la realtà e la fantasia si uniscono portando il lettore fisicamente nei luoghi degli eventi narrati.
Giordano non esita ad usare un linguaggio diretto, ricco di suoni, di onomatopee, di parole gergali e dialettali e di parole nuove (inventate o adattate dall’io narrante), una tecnica innovativa che si palesa già nel primo capitolo e che si rinnova di capitolo in capitolo, man mano che la vicenda si svolge.
Il protagonista è un ragazzo, che non ha nome (mai viene chiamato da qualcuno con un qualsiasi nome che lo identifichi o lo fissi in un soggetto preciso), così come non ha nome la madre del ragazzo (la seconda protagonista della vicenda).
I due protagonisti restano anonimi per meglio evidenziare quella che è la loro caratteristica principale, sono due sognatori, lui giovane sbandato tra bombardamenti e rastrellamenti, capace di inventarsi un universo parallelo tratto dai libri letti (libri che la madre gli ha regalato apposta), di vivere pienamente le sue giornate lontano dalla scuola bombardata e che per tale motivo non frequenta più.
Lei è un’attrice, più propriamente una comparsa, impegnata ad inseguire i suoi grandi sogni, ma sempre presente a suo modo nella vita del figlio che condivide, lasciandolo libero e contemporaneamente seguendolo come solo una madre che ama il proprio figlio sa fare. Si tratta di una donna forte che vive libera, senza legami, non c’è sin dall’inizio nessuna figura paterna, una donna apparentemente superficiale, eppure capace di decisioni coraggiose.
A tenere compagnia al giovane ragazzo, c’è la sua scorta fantastica che lo protegge nelle sue scorribande per i luoghi più selvaggi di una Torino bombardata, dove si combatte anche nelle vie, dove la milizia fascista e le truppe tedesche esercitano un controllo ossessivo, usando violenza e brutalità.
Il ragazzo, come già detto, sa sognare e si proietta in luoghi esotici, in questo aiutato dal lavoro della madre che frequenta gli studi cinematografici di Torino per partecipare come comparsa a molti film che, nonostante il conflitto vengono girati. Lo stesso ragazzo partecipa ad un film storico e vede, conosce, frequenta personaggi importanti di quel periodo e del successivo dopoguerra (ma i nomi è bene che li scopriate da soli, perché la vicenda è fortemente inserita nella realtà storica di quegli anni e perché il romanzo li sa citare e collocare nell’esatto ruolo che quei personaggi storici stavano svolgendo in quel periodo).
Nel condominio dove la madre e il ragazzo vivono, abita la famiglia di Meco (Domenico), un bambino più giovane di un paio d’anni del protagonista. Meco è il terzo protagonista di questo romanzo, personaggio e bambino vero, che ha vissuto in quella Torino luogo di scontri e scioperi. Il ragazzo in qualche modo ne diventa il tutore, il maestro, il compagno di scorribande. Diventati amici i due iniziano a progettare grandi avventure, dal sogno di costruire una zattera con cui fuggire fino al mare e oltre, al perdersi nei grandi parchi torinesi, vere jungle in quel periodo. Il ragazzo che è chiamato capitano dalla sua scorta immaginaria (ma molto reale nella sua vita) decide di nominare Meco tenente e lo coinvolge nelle sue vicende.
Ma Meco ha un fratello partigiano e i fascisti tengono sotto controllo la famiglia, tutta la storia resta in equilibrio tra la realtà storica e la fantasia più sfrenata, tra Torino e Maracaybo e altri luoghi esotici. A far da cornice, o meglio a sottolineare questa convivenza tra realtà e fantasia, sono gli inserti di alcuni brani tratti dai libri di Salgari e i racconti che la fantasia del ragazzo crea dal nulla, sentendosi costantemente a capo del suo gruppo di combattenti invitti e invincibili. Magico talismano sembra essere una Fenice, o meglio il disegno che rappresenta un’Araba Fenice in volo che la madre del ragazzo si era fatta tatuare nel corso di una sua avventura (così lei racconta), un tatuaggio che è un amuleto, un portafortuna, un talismano.
Ma è bene non raccontare nient’altro di questo libro che merita di essere letto, per la sua capacità di evocare emozioni; per la capacità di saper raccontare in modo diverso e originale la triste vicenda della guerra civile che coinvolse l’Italia per due lunghi e terribili anni; per il mistero dell’attesa con cui riesce a coinvolgere il lettore nelle avventure del ragazzo e degli altri personaggi; per l’uso di un linguaggio (e uno stile di scrittura) che sa essere convincente, fortemente evocativo e originale.
Edgardo Rossi
A cura di Alessandro Santoni, sul giornale dell’Istituto Majorana…
Articolo di Moreno D’Angelo su Nuova Società…
Bellissima la recensione di Simona Coppero nel blog del furore di aver libri
riceviamo dalla prof.ssa Lucia Chiara Piovano:
La scrittura di Vilma Gabri è quella della lettrice esperta che esercita il labor limae attraverso l’aggettivazione puntuale, l’apparente trascuratezza negli asindeti, il ritmo fonico del tessuto lessicale, così da costruire con ricercatezza il susseguirsi delle immagini, siano esse quelle marine di pesci e gamberetti nel primo testo, o quella del bue al lavoro che ritorna in racconti lontani a identificare lo stesso personaggio/persona. Mare e terra: il mare è pensato e vagheggiato, poco al di là delle colline, così come già in Pavese, ma ancora oggi in Paolo Conte o Gianni Farinetti. Ancora a Pavese, ma anche a Fenoglio, a Nuto Revelli, sembra portare una terra fatta solo di polvere e sudore, sangue e scorza dura, carne e sputi, mai consolatoria, mai promessa primaverile della vegetazione che nasce, ma solo ossessione dell’estate che affatica, operosità dell’autunno che avanza, dura madre che chiede dedizione e non dà risposte. Un barlume di salvezza sta nel rito, suggellato dal canto che sgorga acuto dalle gole delle donne a compensare il grido strozzato durante gli amplessi subiti. Rito, mito, archetipo: quelle stesse immagini nate a qualche decina di chilometri da qui, pochi anni fa, potrebbero venire dalla Sicilia di Verga o da un film neorealista, immagini di una natura umana quasi immutabile nel tempo e nello spazio cui la scrittura trova, alla fine, un compimento e un senso oltre la sofferenza.
A un sud più lontano ancora di quello di Pessoa, forse alla letteratura dell’altro emisfero, sembra invece rimandare l’atmosfera abbacinata dell’unico racconto di ambientazione cittadina, in cui l’acqua salata non è quella del mare sognato, ma quella delle lacrime desiderate, e proibite, nelle vie immobili come un destino deciso da un’assenza feroce. Se là, tra le colline, la vita poteva alla fine dissolversi leggera come la polvere colorata di un mandala, qui è spossata dal giorno interminabile, si consuma e si inaridisce fino a sbriciolarsi come foglia riarsa. Sembra non esserci mito salvifico nell’oggi che ancora viviamo, qui, abbagliati e sospesi tra gli interrogativi metafisici che si nascondono dietro gli spigoli delle nostre strade, dove ci ostiniamo a cercare una presenza che ci conforti. Anche la scrittura non può che avvolgerci nella desolazione.
Ma, forse, la città estiva è solo una delle tante città invisibili che si nascondono sotto i nostri piedi, come la cabina volante è una qualche ammodernata parente della mongolfiera che si porta via Cosimo Piovasco di Rondò (in fondo anche nel loro autore c’erano Cuba, il mare della Liguria e la città in cui viviamo).
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la recensione del prof. Gianfrancesco Borioni:
In un tempo in cui tutto è virtuale (gli amori, le amicizie, le letture) avere in mano il bel libro La curva della strada è un piacere.
Piacere della vista (le foto), piacere della lettura (i racconti).
Vilma Gabri e Paola Parodi ci offrono un oggetto elegante, puro nella sua essenzialità e profondamente umano.
Tocchi poetici allusivi descrivono questa gente di Piemonte, di ieri e di oggi, bambine, giovani e vecchi. È l’umanità che ci sfila davanti nei testi della Gabri. Quella fantastica dell’infanzia che trasforma la realtà in gioco, quella di destini spezzati e infine quella giunta all’estremo limite della vita.
Su tutto, uno sguardo di misurata compassione che non è distacco dalle umane vicende, ma meditazione sul loro intrigarsi e sciogliersi in un flusso incessante.
È la scrittura che permette questo distanziamento e nello stesso tempo questa immersione nel profondo di ogni destino senza spiegarne il perché: è impossibile penetrare Il mistero di una vita.
Le foto di Paola Parodi non illustrano i testi, ne formano il contrappunto. Sono foto in bianco e nero quasi tutte prive di presenza umana: oggetti, luoghi, forme geometriche, alcune astratte, che isolano istantanee di silenzio.
La concretata operosità degli uomini è diventata cosa, spazio vuoto, filare nella nebbia, volto di pietra.
Questo libro è molto piemontese: senza strepiti, discreto, trattenuto e garbato.
Il meglio del Piemonte.
Gianfrancesco Borioni (professore all ‘Università Paris 8 Saint Denis)