28-02-2018 Rocco Campochiaro

riceviamo da Serena Goldin , bibliotecaria, archivista, giornalista, il seguente contributo:

Una tazza fumante di cioccolata calda: zuccherina all’assaggio, dal retrogusto speziato, ma con la giusta nota fondente.

Questo è il sapore di una “Notte al centralino”.

Libro divertente, autoironico, leggero ma profondo al contempo.

Attraversando mari di metafore e colline di figure retoriche, il lettore diventa egli stesso viaggiatore nei propri ricordi mediante il tour introspettivo di un uomo nella propria anima.

Fogli che sembrano essere destinati a chi è fatto della stessa sostanza dei sogni; a chi non si sofferma su quelle semplici righe ma che ha il coraggio di addentrarvisi, perdersi, per poi ritrovarsi; a coloro che “vedono il bicchiere mezzo pieno” con la consapevolezza che non sarebbe possibile senza “il mezzo vuoto”; a chi apprezza il buon vino nella botte piccola.

Una manciata di pagine a dimostrazione che l’essenziale non sempre è visibile agli occhi e che, alla fine di tutto, ciò che conta non sempre è la quantità bensì la qualità.

30-01-2018 Graziella Morra

la bella recensione di Gianni Martini, su “La Stampa”…

15-10-2017 Anna Roberti

riceviamo dal Gianni Serra, il regista di “la ragazza di via Millelire” questo contributo:

“Quell’anno a Mosca. 1980-1981” è un libro bellissimo. Coinvolgente, avvincente dall’inizio alla fine, serio e ironico, documentato, nostalgico… e non so più che termini usare per dire come io sia stato rapito, di come sia enormemente ammirato per la bravura di scrittrice di Anna Roberti, già, da ragazza, apprezzata da Primo Levi, e questa non è poca cosa. Bravissima nello stile e nella sostanza. (Gianni Serra, regista e sceneggiatore https://gianniserracinema.wordpress.com/)

12-09-2017 Valeria Amerano

Riceviamo da Giancarlo Napolitano questa recensione che stimola una rilettura.

Scelgo di leggere NUDA PROPRIETA’ quando le giornate si accorciano. Le righe danno fiato a un buio precoce e Nora, protagonista senza età e con un’anima gigantesca, mi fa rimpiangere una parte femminile poco ferrata. Accetta Ruggero non come ultima spiaggia, ma come vento mandato da Dio, compenso a una madre prossima alla fuga da una terra ipocrita. La nuova identità concede, a chi legge, una forza emotiva impressionante. La donna che aveva come mestiere quello di rialzarsi, riscopre un’intimità, spesso, provocante. Dialoghi autentici, a tratti ironici, ricchi di passionalità, fanno riflettere sul vero senso di una coppia, spaiata per la società, esemplare nei gesti. D’altronde si vive per amare e l’inchiostro versato sulle pagine è un inno all’amore, con profondi graffi riflessivi. Tutti gli uomini hanno qualcosa che cambieremmo volentieri. La verità è uno schiaffo violento in pieno volto, difficile da incassare che pulsa nelle vene e scortica il pensiero. Da qui comincia un’altra storia, dove i cinque sensi si smarriscono nella normalità. La legge del “contrappasso” rimette ogni cosa al proprio posto e lascia l’amaro in bocca.

 

Giancarlo Napolitano

31-08-2017 Beppe Turletti

Salvatore Tripodi, autore del volume “Mi hanno mandato lontano. Storia operaia alla Fiat Lingotto”, Boxano Editore, amico e compagno di Giovanni Castellano e protagonista di quel periodo ci ha inviato la seguente riflessione:

Carissimi Laura e Beppe, 

avete prodotto un ottimo libro: papà Giovanni meritava questo ricordo per la sua vita esemplare e sono certo che, potendolo leggere, avrebbe approvato il vostro lavoro e l’avrebbe apprezzato molto. Lo apprezzeranno tutti coloro che avranno la fortuna di leggerlo, perché quella vita sacrificata all’ideale, alla costruzione di una società più giusta e soprattutto più umana, è una delle tante di cui oggi molti si sono dimenticati. Avete fatto un atto di giustizia storica e d’amore. 

Il ricordo che fa Laura del padre è tenero e fa venire la pelle d’oca per la profondità dei sentimenti che riesce a comunicare. La ricostruzione degli avvenimenti personali e il contesto in cui Lui ha vissuto e lottato è precisa e circostanziata, e mi ha riportato indietro nel tempo con la memoria: ho pensato ai tanti militanti del Pci o del Psiup che hanno dedicato la loro vita al bene comune, spendendosi per migliorare la dura vita di fabbrica, cercando di ottenere nuovi diritti (di cui altri hanno beneficiato), pagando prezzi davvero gravosi, finendo anche in prigione, oscurando la vita personale, senza mai avere tempo sufficiente per sé e per la propria famiglia. Era il tempo che lo chiedeva, il contesto storico che obbligava i migliori a occuparsi del bene di tutti. Giovanni ha pagato caramente la sua generosità, altri lo hanno fatto e sono stati più fortunati. 

Laura e Valeria(insieme a mamma Mariuccia) devono essere orgogliose di tale Papà.

Chi si è trovato a svolgere il ruolo che il compagno Giovanni Castellano ha coscientemente scelto di esercitare non poteva chiedersi ciò, lo faceva e basta, convinto- tutti i suoi scritti raccolti nel libro lo dimostrano- di fare la cosa giusta. 

Capita proprio così: se partecipi a un ballo, balli e cerchi di farlo al meglio delle tue capacità. 

Vi ringrazio infine di avermi fatto partecipe di questo vostro “segreto” familiare. 

Rosa Luxemburg scriveva al suo amore Leo Jogiches che “pro captu lectoris habent sua fata libelli”. Anche il vostro libro ha un destino e spero duraturo. Grazie.

Salvatore

Torino, 22 agosto 2017

23-08-2017 Rosanna Caraci

Anche nella versione “cartacea”…. caracilastampa

19-07-2017 Marco Travaglini

pubblichiamo la recensione di Giorgio Rava, pubblicata su “Il Torinese” del 19-07-2017

Hanno un odore del tutto particolare. Ritorno all’infanzia e ricordo che ne raccoglievamo a maggio delle intere scatole di latta…

Marco e i maggiolini (melolontha melolontha)

Conosco Marco Travaglini da una vita e ne apprezzo la scrittura. Marco è nato a Baveno, sulla sponda occidentale del lago Maggiore. Forse ciò che più è conosciuto di questo borgo lacustre è il granito rosa, non sicuramente le ormai esauste fonti che avevano sollevato dalla gotta e dalla renella generazioni di illustri che, nel secolo passato, come era il detto, “passavano le acque”. Ancora oggi un triste leone, alle porte di quelle che erano le rinomatissime “Fonti di Baveno”, guarda con occhio spento l’andirivieni di turisti dalla calzettina bianca e dal sandalo sdrucito. Ma non è certo questo il luogo dove ricercare le origini di Marco Travaglini. Lui sta dentro le cave del rosa , tra gli scalpellini, nella polvere da silicosi, tra gli scoppi della mina. Ha in sé l’igneo granito rosa di Baveno che entra profondamente nei suoi scritti. Mette in fila parole che sembrano fatte degli stessi componenti di quel granito di Baveno che ha dato forme all’Operà di Parigi, alla chiesa di San Carlo a Vienna, al monumento a Cristoforo Colombo a New York, così come ai muretti a secco che portano ai circoli operai o ai piccoli cimiteri delle frazioni bavenesi , o al gioco del “filetto” degli scalpellini. In quel granito troviamo il feldspato, che “colora” di rosa il cielo dei tramonti sulle  isole Borromee, il quarzo – gelido come il fiato di un inverno al Mottarone – e poi epidoto, zircone, olivina: pietre usate in gemmologia, soprattutto lo zircone che per la sua durezza è considerato il diamante “povero”. In quel granito c’è un pot- pourri di elementi come lo sono i racconti  contenuti nel suo bel libro intitolato “Il tempo dei maggiolini”. I maggiolini hanno un odore del tutto particolare. Ritorno all’infanzia e ricordo che ne raccoglievamo a maggio delle intere scatole di latta, scrollando gli alberi. Si diceva, ed era una delle prime favole metropolitane, che la “forestale” pagasse per ogni scatola consegnata. Una balla colossale che ci ha fatto sperare in guadagni astronomici, ma poi le scatole finivano sui falò con un crepitio ed un profumo di gamberetti alla griglia (l’elitra di questi insetti coleotteri è composta da chitina, la stessa del carapace dei gamberi). Per noi che manco sapevamo cosa fossero i gamberetti alla griglia (negli anni ‘60 e nelle famiglie che abitavano le case popolari non entravano gamberetti..) quel profumo è ritornato in seguito, in occasione di qualche grigliata tra amici. Come tutto, come sempre,  prima o poi, ritorna. Il “melolontha melolontha”, secondo la classificazione linneana, è un coleottero (ho anche un diploma di perito agrario..) e lo avevo studiato illo tempore sul testo di entomologia agraria come animalaccio dannosissimo alle colture.

Ora l’ho ritrovato nel libro di Marco Travaglini che riporta in copertina l’albero dei maggiolini, regalandoci spaccati di vite fiorite o trascinate sui contrafforti o sulle rive di questa terra di laghi e di montagne dove entrambi siamo nati. Sedici storie raccolte in centodieci pagine da bere tutte d’un fiato, come si potrebbe sorseggiare un calice di buon bianco fresco nella calura di quest’anomala estate. Leggendo mi sono ritrovato in quella “comédie humaine” a me particolarmente cara, in quella “dimensione” del “buon tempo che fu” che mi ha ricondotto alla “luciferina”, da lux fero, portatrice di luce, come la stella del mattino, che si trova in quelle lucciole che mettevo sotto al bicchiere nella mia stanza e che, spenta la luce dell’abat–jour, mi accompagnavano nei miei sogni di bambino. Queste storie mi riportano alle erbe di prato raccolte sotto la guida di mia madre  – Marco, nel raccontare, ha però dimenticato le verzole (selenia) e i “lavartiis”( il luppolo) – o a quegli insetti neri e gialli ribatezzati “prividitt”, i “preti”. Ma già l’amara conclusione del primo racconto ci dice che quel “piccolo mondo antico” è sparito, sopravvive come “mito” dentro noi, come il profumo delle madeleines di proustiana memoria. Alcuni di questi racconti mi hanno colpito particolarmente. “Arrigo e i Trambusti” ha evocato in me suonatori d’altri tempi, spesso autodidatti, quelli che giravano le osterie con la fisarmonica in spalla. Ricordo, ad esempio, il “Ligio”. Era di Nonio – sulla sponda occidentale del lago d’Orta –  e spesso lo incontravo a Omegna, al circolo della Madonna del Popolo o all’enoteca del “Ferro”, sempre alticcio : gli offrivo un bicchiere, bevevamo insieme e gli ho dedicato un quadro che lo ritrae con la sua fisa. E poi i “Bruno’s’”: onnipresenti alle feste de L’Unità, ma anche a quelle “di fede e devozione” con un repertorio che andava  da “Bandiera Rossa” a compiacenti o casti valzerini. “Fuochi fatui” propone un’avventura cimiteriale, un noir nostrano e grottesco, con un protagonista burlone che provocava un bel po’ di “strizza”. Mi ha rammentato una “leggenda metropolitana” dei miei tempi, leggenda che ci aveva impauriti e che ci aveva dato l’immagine del cimitero  del romanticismo di Hoffmann  e non certamente di quella dimensione di pace eterna o di luogo di passaggio  ad altre dimensioni. Il “tipo” in questione per dimostrare di non aver paura dei morti aveva scommesso che si sarebbe recato nottetempo  al cimitero e che avrebbe girato tra le tombe, ma impigliatasi la giacca in una di quelle basse inferiate che spesso erano poste intorno alle tombe, sentendosi “tirar per la marsina”, potete immaginare a cosa potesse aver pensato. Lo trovarono stecchito e ormai “freddo”, appeso alla sua marsina. Ne “Il mio Gianni”, Marco ci parla forse dell’omegnese più illustre e più conosciuto, proponendo una bella storia che richiama alla memoria anche i giocattoli di latta prodotti a Omegna negli anni venti. I ricordi sono molti. Gianni Rodari nasce nel 1920, come mio padre; muore nel 1980, come mio padre; era maestro di scuola,come mio padre. Anch’io ho giocato con la motonave di latta della Cardini: si chiamava “Saturnia”. “La pentola d’oro delle Quarne” è un bel racconto da cui emergono ancestrali odi che mi hanno riportato alle Novelle della Pescara di D’Annunzio, alle rivalità – finite poi nel sangue – tra gli abitanti di Miglianico, piccolo paese di terra d’Abruzzo, tra i sostenitori di San Gonselvo e quelli di San Pantaleone. Non è accaduto così tra i “quarnelli” di Sotto e di Sopra, ma residuati di queste rivalità sopravvivono. Nel racconto però interviene l’intelligenza dei bambini ed allora è un’altra storia. Didattica pura! Ne “L’ombrello di Sissi” s’incontra la storia degli ombrellai del Vergante, soprattutto quella dei bambini affidati ogni anno al “lusciàt”, all’ombrellaio che li portava in giro per l’Europa. Non avevano fortune, dormivano nei fienili, mangiavano quando capitava, sopportando ogni cosa. Se capitate a Gignese, visitate il museo dell’Ombrello e avrete un’immagine degli strumenti del “lusciàt” e delle vere e proprie opere d’arte che essi creavano. Non mi sono stupito quindi del bel racconto sull’ombrellino della principessa Sissi che, come ci dice la storia,  fu fatta passare a miglior vita dall’ anarchico Luigi Luccheni. Triste fine anche la sua, “suicidato” in carcere nel 1910. La sua testa recisa fu conservata in un contenitore sotto formalina all’Hotel Mètropole, mostrata agli illustri ospiti come Lenin, Molotov Malenkov e poi regalata nel 1998, nel centenario del regicidio, dal governo svizzero all’istituto di patologia di Vienna. “Una spina nel cuore” e “Villa Morlini” ci rammentano che sia il lago d’Orta che il Maggiore sono stati anche set cinematografici come ci racconta Marco Travaglini in queste due saporite storie che mi hanno riportato al tempi in cui venne girato ad Omegna “La banca di Monate” o ai racconti di Piero Chiara ambientati dei “casini” o “bordelli” che dir si voglia. Infine,senza nulla voler togliere agli altri racconti, “Vincent che disegnava le stelle”. La sua lettura mi ha fortemente emozionato. E’ il racconto che più mi ha colpito , forse per la vicinanza ideale a Vincent, per le affinità elettive, perché amo le stelle e guardo il cielo, perché anch’io dipingo stelle. Buona lettura, allora. E’ un libro che non vi deluderà.

Giorgio Rava

01-07-2017 Giuseppe Giordano

Dal Blog Anaconda anoressica di Consolata Lanza, un libro che lascia il segno… un contributo di far sensibilità sensibilità